De Angelis: Puntiamo a crescere, non solo a Roma
/in news /da RobertoCompetizione e passione sono parole importanti per Andrea De Angelis, classe 1962, una laurea in Economia e un’attenzione ai dettagli che si nota fin dal primo ingresso in una delle strutture del Gruppo di famiglia. L’arredo, le luci e gli spazi sono quelli di un grande albergo, ma a colpire è soprattutto l’odore: nell’atrio del Paideia International Hospital non c’è quel sentore tipico degli ospedali, dove il disinfettante si mescola ai medicinali, ma un profumo di pulito che stupisce. Competizione e passione, dicevamo: la prima “per aiutarci a superare i limiti che ci siamo imposti”, la seconda perché rende semplici “anche le cose difficili”. De Angelis è un nome noto nella sanità privata capitolina. Ad di Paideia e Mater Dei, dopo l’impegnativo progetto della nuova struttura in via Fabbroni, guarda ad altri obiettivi: “Speriamo entro un anno di aprire un nuovo centro importante nella zona dell’Eur. Ma già posso dire che puntiamo a crescere, non solo a Roma”.
La sanità nel suo caso è una passione di famiglia. Può raccontarci gli inizi del vostro Gruppo?
Era la fine degli anni ’50 quando mio nonno Elio, che veniva dal settore immobiliare, decise di espandere l’attività nella sanità diventando uno dei fondatori della casa di cura Villa Margherita, a Roma. Successivamente comprò il terreno dove oggi sorge la Mater Dei, e in seguito la mia famiglia decise di investire ulteriormente nel settore, comprando la Paideia.
Oggi quali sono i numeri del vostro Gruppo?
Negli ultimi anni siamo cresciuti tantissimo; lo ha fatto la sanità privata in generale, ma se guardiamo ai numeri siamo andati oltre la media, in particolar modo da quando abbiamo inaugurato Paideia International Hospital due anni fa: oggi ci avviamo a superare i 100 mln di euro di fatturato, ogni anno effettuiamo 300.000 prestazioni ambulatoriali, circa 9.000 ricoveri e 40.000 fra Tac e risonanze.
Con Alberto, direttore commerciale e innovation manager delle strutture del gruppo, siete arrivati alla quarta generazione: come è cambiata negli anni la sanità privata?
Due aspetti hanno segnato il cambiamento: la prevenzione e gli strumenti che la tecnologia ci ha messo a disposizione hanno consentito la diagnosi precoce soprattutto di mali importanti, dando anche un impulso sul fronte del trattamento e della cura. L’altro aspetto è direi di tipo economico-tecnico, con l’ingresso delle compagnie di assicurazione che sono andate a sopperire alle carenze del Ssn. Oggi lo Stato fatica a sostenere la spesa sanitaria, e a pesare è anche la questione demografica: nel 1970 la popolazione over 65 era il 10% del totale, nel 2000 era salita al 22% e nel 2030 sarà del 35%. Questo significa una domanda di servizi sanitari in fortissima crescita. Ecco perché negli anni si sono sviluppati sistemi alternativi per dare risposte alle esigenze del cittadino. Pensiamo solo alle liste d’attesa.
Modernizzazione e sostenibilità sono delle sfide non da poco, come le avete affrontate?
La tecnologia è da sempre un nostro punto di forza. Non c’è crescita senza sviluppo tecnologico, siamo stati all’avanguardia nell’introduzione della diagnostica avanzata e oggi ci appassionano anche altre sfide, a partire dalla sostenibilità ambientale.
Dopo la pandemia il Ssn fa i conti con una pesante carenza di operatori, tra pre-pensionamenti e fughe all’estero o nel privato. Dal vostro punto di vista come è la situazione e cosa offrite agli operatori?
Credo che sia un problema del sistema Italia in generale: i giovani scelgono di cambiare Paese perché in taluni casi da noi le opportunità mancano. Nel nostro settore poi c’è la questione del numero chiuso a Medicina, che ha contribuito alla carenza di operatori. Un tema che da noi non c’è: l’attività medica viene svolta a livello libero professionale nella stragrande maggioranza dei casi. Ma la questione dei giovani che tendono ad andare all’estero esiste, e segnalo sul fronte delle professioni infermieristiche la tendenza a spostarsi verso Nord, dove le remunerazioni sono più alte rispetto al Centro Sud.
La digitalizzazione in sanità è ormai una realtà; ci sono figure professionali che faticate a trovare o che vi contendete con altri settori?
Abbiamo sviluppato al nostro interno un gruppo di information technology che ci segue in tutti i nostri processi e riteniamo questo aspetto fondamentale. Semmai la sfida per il futuro è quella di far sì che l’utilizzo di strumenti digitali e dell’intelligenza artificiale non abbia un impatto negativo sul mondo del lavoro. Noi riteniamo che attraverso l’AI si possa crescere e, crescendo, si possano garantire e mantenere gli stessi livelli di occupazione. Questo dovrebbe valere per qualsiasi azienda sana.
La sanità oggi spesso è donna, lo è meno se guardiamo ai ruoli apicali. Da voi come stanno le cose?
Abbiamo avuto un direttore generale per vent’anni: era una donna che ho scelto personalmente. In taluni casi direi che le donne hanno qualcosa in più degli uomini, quando si tratta di lavorare in sanità.
Avete inaugurato due anni fa il Paideia International Hospital, che tipo di impegno economico ha comportato e quali erano i vostri obiettivi?
L’investimento globale si aggira intorno ai 70 mln di euro. Un impegno importante, non solo in termini economici. Ricordo che quando ero bambino entravo in ospedale e sentivo un odore che mi metteva a disagio, dunque mi sono messo nei panni dei pazienti. Volevo realizzare una struttura che li facesse sentire a proprio agio, perché quando si ha un problema di salute, anche l’aspetto psicologico è importante. Il nostro obiettivo era quello di dare questo tipo di risposta, realizzando a Roma un ospedale che non c’era ancora, a differenza di quanto accade al Nord, in termini di modernizzazione delle cure, apparecchiature all’avanguardia, servizi di eccellenza. Credo di aver contribuito a colmare questo vuoto.
Quali sono allora le prossime sfide per il vostro Gruppo? Puntate a crescere ancora?
Di solito si fanno i budget per non rispettarli (sorride, ndr). In questo caso noi abbiamo raggiunto gli obiettivi con tre-quattro anni di anticipo, quindi l’idea ora è quella di svilupparci ulteriormente. Speriamo entro un anno di aprire un nuovo centro importante nella zona dell’Eur, ma ci stiamo guardando attorno per crescere, non solo a Roma. Un obiettivo importante, che vorremmo raggiungere.
Una curiosità: quando era agli inizi cosa voleva fare ‘da grande’?
Beh, ho sempre amato la natura e quindi se guardo avanti, a quando sarò grande (sorride ancora, ndr) vorrei vivere a contatto con la natura. Sono convinto che questo consenta all’uomo di svolgere al meglio qualsiasi attività.
C’è un insegnamento di suo nonno o di suo padre che ha trovato prezioso e che segue ancora oggi?
Purtroppo mio nonno non ha fatto in tempo a lasciarmi molti insegnamenti, ma era un uomo che credeva nell’innovazione e ha fatto scelte imprenditoriali che lo dimostrano. Da mio padre ho imparato che la nostra famiglia ha molto a che fare anche con le competizioni: è stato un campione mondiale di motonautica, mentre mio fratello (Elio, ndr) è stato un campione di Formula Uno e io stesso ho gareggiato sui kart, quindi abbiamo avuto sempre le competizioni nel sangue. Mio padre mi ha insegnato che, attraverso la competizione, si sfidano gli altri, ma anche noi stessi: così impariamo a resistere e a superare i limiti che ci siamo dati.
Quale consiglio darebbe, allora, a un giovane alle prese con la scelta del proprio futuro?
Direi che dovrebbe sentire dentro una passione, qualcosa che lo porti a credere che quello sarà il suo futuro. Poi non importa se davvero riuscirà a realizzarlo: il fatto di crederci aiuta sicuramente nella scelta. Ma nel futuro dei giovani non ci deve essere per forza l’università: oggi vediamo tanti mestieri preziosi abbandonati, tante attività professionali dove competenza e preparazione consentono di ottenere importanti risultati. In sanità pensiamo che un tecnico di radiologia oggi guadagna più di un giovane laureato. Insomma, alla fine è importante scegliere in base a ciò che ognuno di noi sente dentro, alla nostra passione. La passione ci aiuta anche a fare con semplicità le cose difficili.